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Dalla parte dei più piccoli

DALLA PARTE DEI PIU’ PICCOLI


Sono emozionatissima!


Ho avuto il privilegio, qualche tempo fa, di intervistare Grazia Honegger Fresco, una delle più autorevoli autrici di opere divulgative in campo educativo indirizzate alle famiglie, pedagogista erede di Maria Montessori della quale è stata allieva. Ripubblico questa suo prezioso contributo.


Da oltre cinquant’anni Grazia Honegger Fresco fornisce un contributo scientifico e professionale all’approfondimento del pensiero montessoriano.

Presidente del Centro Nascita Montessori di Roma dal 1981 al 2003, consulente pedagogica di AMITE (Associazioni Montessori Italia Europa), dal 1984 è condirettrice della rivista trimestrale “Il quaderno Montessori”.


Nel 2008 ha ricevuto il Premio UNICEF “Dalla parte dei bambini”.


Grazia Honegger ha accompagnato la nascita de Il Melograno e da circa trent’anni ne guida la riflessione sul bambino.


Qualche anno fa, grazie alla frequentazione di un percorso di formazione sulla pedagogia montessoriana presso l’Università Cattolica di Milano, di cui Grazia è stata coordinatrice didattica e docente, ho avuto il privilegio di poter far tesoro dei suoi preziosi insegnamenti.


Le sono profondamente grata per le sue illuminanti riflessioni utili per chiarire alcuni dei dubbi che sorgono nello svolgere il difficile “mestiere” di genitori.


Non mi resta che augurarvi buona lettura!




Domanda: la velocità e la frenesia dei nostri ritmi di vita ci costringono, molto spesso, a vivere la relazione con i nostri figli in maniera poco naturale, lontani dal rispetto dei loro tempi e dei loro ritmi di sviluppo. Quali sono i bisogni autentici e più profondi dei bambini ai quali prestare ascolto per garantire loro una crescita sana e armoniosa?



Possiamo parlare di cose sagge che si dovrebbero fare, ma dovremmo anzitutto rovesciare l’idea di essere noi adulti i poveri cristi costretti dagli eventi ad essere sempre in velocità, a riempire in modo inverosimile le nostre giornate, tanto da non avere più nemmeno il tempo di ascoltare un piccolino o di guardarlo negli occhi.


Non siamo vittime, ma piuttosto persone che rinunciano a fare scelte diverse.

Ci lasciamo andare all’imitazione passiva del mondo che ci circonda e mettiamo a tacere quei residui di sano istinto che ci dicono: “Ma perché viviamo così?” .


Se abbiamo scelto di avere un figlio o se questi è arrivato inaspettato e perfino indesiderato - e questa è già di per sé tristissima cosa – abbiamo comunque davanti una responsabilità precisa da persone adulte: quella dell’accudimento del figlio, in comune con tante specie animali.


Ogni specie ha il suo modo: la gatta e l’aquila, il delfino o la giraffa…


La madre - a volte anche il padre - si ferma, cambia le sue abitudini, prepara il nido, imbocca o dà il latte, e poco dopo insegna i primi rudimenti della specie; poi appena il piccolo è uscito dall’infanzia più o meno lunga e sa trovare da sé il cibo, lo spinge fuori, lo mordicchia perché se ne vada, senza rimpianti.


La specie umana con il suo prodigioso cervello, il linguaggio, le mani che costruiscono, la posizione eretta che le ha permesso di impadronirsi del mondo intero, ha perso gli antichi istinti, ha fatto diventare il parto/nascita, e prima ancora la gravidanza, un evento medico, allontanando da sé quel mondo di tenerezze e di vicinanza che segna in profondità il legame tra genitori e figli.


Vivendo nella velocità, nella continua competizione e nel primato dato alla verbalizzazione e alla cosiddetta razionalità (ahimè quanto fallace!), il genitore umano fa molta fatica ad accettare che quel bambolino fragile, inerte, privo di parola, capace soprattutto di piangere a perdifiato, sia UN ESSERE SENSIBILE.


Da secoli si dice che il bambino è un legno storto da raddrizzare, che è solo un tubo digerente, che prende i vizi, che piangere gli fa bene.

Appena nato il medico gli dà una buona pagella se funziona a dovere e poi, gli si può fare di tutto: metterlo lontano dalla madre (che deve riposare, si dice. E lui no?), vestirlo e profumarlo, tenerlo a digiuno o dargli acqua e zucchero invece del prezioso colostro – il primo latte – previsto dalla natura per tutti i mammiferi, per abituare lentamente un organismo nuovo ai tanti mutamenti interni ed esterni.


Un tempo le puerpere si chiudevano in casa con il neonato per 40 giorni e non vedevano nessuno.

Oggi le donne, in piedi 24 ore dopo il parto (non perché debbano lavorare come le contadine più povere, ma perché devono mostrarsi efficienti) portano subito fuori il bambino per mostrarlo in giro: “No, i suoi occhi non si vedono mai in queste circostanze, anzi sono fortemente strizzati” (lo farà per far dispetto?).


Che cosa dobbiamo fare?


Anzitutto prendere una sosta, non far finta che tutto sarà come prima.


Il neonato vuole i genitori per sé, ma non è egoista.

Lui o lei non sanno niente del nostro mondo complicato, ora amaro ora gaudente. “Mi avete chiamato, occupatevi di me, perché senza di voi non posso vivere”.

Non gli basta il latte, si adatta persino a digerire quel cibo finto che è il latte in scatola; ma di attenzioni, di carezze, della voce umana non può fare a meno.


Non solo.


Ha bisogno di abitudini regolari, di continuità: sempre lo stesso luogo, la stessa voce, le stesse mani.

Per entrare lentamente nel mondo degli umani deve ritrovare per tanti giorni e mesi le stesse impressioni sensoriali.


Lentissimamente costruirà dentro di sé l’immagine dei genitori attraverso il loro modo di portarlo, di consolarlo, di guardarlo. Li riconoscerà all’odore, al suono delle loro voci su cui costruirà il proprio linguaggio.

Nasce molto immaturo - il più immaturo di tutti i cuccioli della Terra - e sarà il suo cervello a guidare passo passo ogni progresso, però deve essere immerso in un’atmosfera protettiva, fatta di lentezza, di garbo, di cose che non cambiano e che per questo sono rassicuranti.


E come facciamo?

Noi adulti non sopportiamo di mangiare due volte di seguito lo stesso cibo e consideriamo la ripetizione una condanna da inetti (forse perché a scuola ci obbligavano a ripetere?).

Lui invece ha un bisogno insaziabile di ripetizione: il seno materno che torna circa ogni tre ore, il bagnetto alla stessa ora, le voci sempre uguali.


Ben presto ci accorgiamo che quando osserva, diventa attento, dirige la sua attenzione e la blocca. In altre parole si concentra: è un fenomeno straordinario in un bambino così piccolo, eppure quanto importante.


Ha appena un mese e fissa insistentemente il viso di sua madre mentre succhia al seno: lo disturba se qualcuno si mette a parlare con lei tanto che smette di succhiare.


Ha due mesi e sdraiato nella culla fissa con interesse e a lungo la finestra o le foglie che si muovono.

Il giorno dopo, posto nella stessa posizione, gira la testa fino a trovare – si direbbe – la stessa inquadratura: la concentrazione ricomincia. “Silenzio, la mente del bambino è al lavoro” non dobbiamo distrarla.

Tre mesi: c’è un oggetto bellissimo a disposizione, una piccola mano che si apre e che si chiude. Forse non sa ancora che è cosa sua, ma che fascino quelle piccole dita che si muovono.

Alta concentrazione: è il suo modo di studiare. La scelta di che cosa studiare è già un suo essenziale atto di indipendenza.


Gli adulti invece non sopportano che il bambino sia attento a qualcosa che ha trovato per conto suo e subito lo distraggono, lo richiamano, magari per dirgli “Fai ciao ciao con la manina” e lui esegue a mo’ di scimmietta. Valeva la pena di interrompere il suo “studio”? Non potevamo almeno aspettare che lo interrompesse egli stesso?


Di queste minuzie è fatto il rispetto al bambino del primo anno di vita, un essere sensibile, in grado di comunicare le sue esigenze, i suoi desideri così piccoli e così grandi di cui possiamo accorgerci solo se ci facciamo piccoli e lenti accanto a lui. E’ un tempo molto breve, circa nove mesi, ma prezioso.


Che succede se di colpo lo affidiamo a un Nido o a una badante o se decidiamo, su consiglio del pediatra, che a quattro mesi basta con il latte materno?


Ci sono bambini meno reattivi, più tranquilli che non sembrano reagire ai cambiamenti, ma altri hanno reazioni devastanti: cominciano i disturbi del sonno, i problemi di reflusso, il rifiuto di nuovi alimenti – diversità di sapore, di rugosità, di odore - si ammalano facilmente, vogliono stare molto in braccio e non giocano più da soli.


Il bel giocattolo si è rotto e gli adulti non sanno più accomodarlo: a poco a poco lasciano fare al bambino tutto quello che vuole. Rifiuta il riso, gli faccio la pasta, non vuole neanche quella.

Un passo dopo l’altro a tre anni mangia solo patatine e banane.

Non vuole più andare a dormire a ore ragionevoli. (“Che vuoi? E’ fatto cosi!”). La nonna lo rincorre per tutta casa perché mangi un boccone oppure gli racconta favole con un esercito di peluche. Meglio di tutto però per indurlo a mangiare è Re Leone.

Così appena uscito dal terzo o quarto anno ne abbiamo fatto un capriccioso tiranno.


Quando e dove abbiamo sbagliato?


Non ci sono ricette valide per tutti.

Ogni bambino è diverso ed è questa originalità che dobbiamo scoprire e mettere in valore: dargli tutti noi stessi nei primi mesi di vita per cominciare con alcuni No, pochi, fermi e sapienti come quando, per esempio, intraprende il cammino di scoperta dentro casa, soprattutto sulle due gambe.


Il bisogno di esplorare si rivela in tutta la sua potenza.


Non cominciamo a dire scioccamente: “Il terribile secondo anno”.

Il bambino è affamato di attività intelligenti che può scoprire da sé.

Si tratterà di scegliere che cosa mettergli a disposizione: lui stesso vi rivelerà che cosa preferisce fare.

Togliete di mezzo gli oggetti pericolosi e accettate per alcuni mesi di aver per caso un insaziabile esploratore che forse vi butterà a terra la collezione dei DVD o la pila delle magliette appena stirate.

Non ditegli che è cattivo.

Non può stare fermo: se non trova le giuste risposte si arrangia come può.


Sta a voi prevedere per non entrare in sciocchi conflitti e trattarlo male!


Grazia Honegger Fresco


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