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La speranza è nei bambini


Nel considerare di volta in volta, all’interno di questo spazio, gli aspetti pratici dell’educazione dei nostri bambini, il mio vuole essere un tentativo di ripensare, o meglio, di recuperare una dimensione di educazione come “aiuto alla vita”. Grandi pedagogisti e studiosi dell’infanzia come Maria Montessori ci ricordano che educare significa offrire tutto ciò di cui una persona ha bisogno per diventare sé stessa, coltivando e facendo crescere le sue potenzialità e capacità personali.

Nella fiaba “Il mago di Oz”, Dorothy, la protagonista che vive in campagna con gli zii, ad un certo punto viene trasportata da un ciclone nel mondo della fantasia. Lì incontra uno spaventapasseri che pensa di essere senza cervello, un boscaiolo di latta che crede di non possedere un cuore e un leone convinto di essere codardo. Per di più Dorothy ha perso anche la strada per tornare a casa. I quattro amici decidono, allora, di intraprendere insieme un viaggio, per recarsi dal potente mago di Oz convinti che possa essere l’unico a risolvere i loro guai.

Arrivati da questo mago stranamente non ottengono la soluzione magica, semplicemente Oz permette loro di comprendere che tutto ciò che vanno cercando, lo possiedono già.

Così lo spaventapasseri scopre di aver sempre avuto un cervello, il boscaiolo di latta di avere avuto sempre un cuore, il leone scopre di possedere il coraggio e Dorothy si rende conto che da sola riesce a trovare la strada per tornare a casa.

Da secoli i bambini aspettano di incontrare il loro mago di Oz, qualcuno cioè che sappia riconoscerli come portatori di patrimoni di risorse e di potenzialità che vanno valorizzate. Questo frammento della favola del Mago di Oz ci permette di riflettere su quanto sia importante coltivare le possibilità latenti ma esistenti nel bambino, in modo che possano espandersi. È solo l’accoglienza iniziale che il bambino vive da parte di un adulto significativo ad aiutarlo successivamente nella costruzione della sua identità di individuo protagonista della propria vita.

Dall’infanzia ci si passa solo una volta eppure è lei che determina la qualità dell’esistenza. Quello che i nostri bambini pensano, provano, sperimentano e vivono in questa prima fase è l’unico e fondamentale indicatore di ciò che sarà il resto della loro vita. Oggi più che mai, in questa nostra società investita da profonde trasformazioni che hanno modificato sostanzialmente la cultura, i valori, il ruolo dei genitori accanto ai figli, c’è bisogno di restituire senso all’educazione rimettendo al centro i bisogni e i diritti fondamentali di ogni bambino, rispettandolo nella sua identità e nelle sue esigenze “fisiologiche” fin dai primi istanti di vita. “L’educazione (…) deve prendere nuove vie, mirando allo sviluppo delle capacità potenziali dell’uomo. Quando dovrebbe cominciare una tale educazione? La nostra risposta è che la grandezza della personalità umana comincia dalla nascita” (Maria Montessori). Ciò significa, come ci ricorda Elena Balsamo etnopediatra e autrice del bellissimo libro “Sono qui con te”, garantire ad ogni bambino dal momento in cui nasce un insieme di attenzioni e buone pratiche educative che lei definisce “caretaking package” e cioè: l’opportunità, per quanto possibile, di nascere secondo natura, di essere accolto con amore e dolcezza, di essere allattato, massaggiato da un “tocco buono”, “portato” dai propri genitori, di essere curato, se ammalato, secondo un approccio olistico. Insomma, di vivere in un ambiente che nutra oltre che il suo corpo anche la sua anima, all’interno di una relazione educativa fondata sull’amore. “In qualsiasi società, presso qualsiasi popolo, il modo in cui uomini e donne trattano i loro bambini è una delle cose più significative nella formazione della personalità dell’adulto” (Margaret Mead). La qualità dell’accudimento che noi adulti forniamo, sin dall’inizio, ai nostri bambini contribuisce in maniera significativa al loro sviluppo fisico, emotivo, sociale, ed intellettivo. Molte delle ricerche più recenti hanno scoperto che i modelli familiari che vanno a discapito dell’accudimento, di un accudimento qualitativamente significativo, possono compromettere in modo rilevante sia le abilità cognitive che quelle emotive. Non solo. Diversi studi dimostrano che i piccoli, i cui genitori hanno una certa difficoltà nel toccarli, cullarli o semplicemente parlare loro nei primi mesi di vita, presentano più frequentemente ritardi della crescita e/o dello sviluppo psicomotorio. “Se nessuno ci avesse mai toccato, saremmo infermi. Se nessuno ci avesse mai parlato, saremmo muti. Se nessuno ci avesse mai sorriso e guardato, saremmo ciechi. Se nessuno ci avesse mai amato, non saremmo persone” (Paul Baudiquey).

In una delle sue opere più importanti “Grande Didattica” Comenio, “fondatore della moderna teoria educativa”, sottolinea in ben 36 punti quanto sia indispensabile partire dai bambini, cioè da un intervento educativo precoce perché “…si tratta della salvezza del genere umano…”. Anche Maria Montessori qualche secolo dopo avverte la stessa urgenza: “Se vi è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo, e di conseguenza la società”.

Cosa ne abbiamo fatto delle sollecitazioni di questi grandi maestri?

Viviamo in una società che tende a potenziare più la cultura della separazione che quella del buon legame che mette al centro il valore della relazione e “dell’essere con” l’altro. Siamo assillati dalla paura di “viziare” i nostri bambini se li tocchiamo troppo, (come quando li teniamo in braccio), e spinti dalla fretta di renderli prontamente, ma erroneamente autonomi, progressivamente abbiamo consolidato delle modalità di relazione che diversi studiosi contemporanei dell’infanzia stanno identificando come una tendenza preoccupante. Si sta, infatti, verificando uno spostamento in direzione di tipologie di accudimento sempre più impersonali (e mi tornano alla mente i consigli di esperti che suggeriscono ai genitori di bambini molto piccoli, ancora neonati, una sorta di tabelle di marcia a cui ci si deve attenere facendo piangere i propri bambini ogni giorno per tempi più prolungati fino a che non si “abituino” a questo regime di segregazione…) che ci costringono a vivere la relazione con i nostri figli in maniera poco naturale, lontani dal rispetto dei loro tempi e dei loro ritmi di sviluppo, dalle loro curiosità e modi di ragionare, sempre meno in ascolto dei loro più autentici e profondi bisogni.

Non tutto però è perduto, come scrive Grazia Honegger Fresco. La speranza è ancora una volta nei bambini! Non ce ne dobbiamo dimenticare.

“Il bambino(…) come compagno migliore di noi, che ci sostiene nel cammino della vita, è una figura sconosciuta. Su di essa esiste una pagina bianca nella storia dell’umanità.

È questa pagina bianca, che noi vogliamo incominciare a riempire”. M. Montessori


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